DIARIO numero due: viaggio nella memoria migrante
siciliana
Ricerca e percorsi per un documentario.
Dopo essere
rientrati da SHOUSHA CAMP a Tunisi a notte fonda o se preferite nelle prime ore
del mattino del 9 febbraio, e dopo esserci concessi una giornata di rilassamento
e comprensione minima della città di Tunis, decidiamo che dall’indomani avremmo
cominciato l’altro dei due viaggi cui accennavo nel precedente diario: sulle
tracce di vite vissute da alcune famiglie siciliane.
09-02-2012
Partiamo per alcuni
villaggi. Li hanno vissuto e lavorato decine di famiglie, partite all’inizio del secolo 1900. Perlopiù
siciliani che avevano lavorato per conto di padroni francesi e poi successivamente,
con grande fatica e sudore, per conto proprio. Nei primi anni ‘60 del novecento
costretti a restituire le terre al governo tunisino, dopo la proclamazione
dell’indipendenza.
Malgrado molto sia
stato cancellato di quella storia qualcosa
scorgiamo lungo la via. Bisogna comunque farci caso o seguire gli appunti delle
letture.
Entriamo in uno di
questi. È un villaggio. Come tanti che incontri nelle strade secondarie e nelle
vie lunghe che tagliano la Tunisia, una volta abbandonata l’autostrada.
Un villaggio
povero. Tipico di botteghe minuscole,
antiche e vecchie, piene di odori speziati.
Entriamo in una
zona dove hanno costruito case più recenti in mezzo la campagna di fango e
resti di spazzatura disseminata dovunque. Entriamo li dopo aver chiesto
informazioni sulla comunità siciliana ad una vecchia contadina ai bordi della
strada che taglia in due il villaggio e che taglia in due altri posti più
avanti. Sembra che nessuno si ricordi di questa presenza. Ma la contadina ci
indica una strada che porta ad alcune vecchie abitazioni.
Seguiamo qualche
metro più avanti e chiediamo ad altri. Finalmente un ragazzo sa qualcosa e ci
guida fino ad una casa. Una di quelle che cercavamo. L’architettura colonica.
Sembra essere stata di qualcuno che stava economicamente bene. Tutto intorno
altre case nel fango e asini, galline e pecore.
Il ragazzo parla
arabo. Pochissimo francese. Laura conosce un po’ di arabo e parla con lui, che
continua a guidarci intorno. Nella parte bassa della casa a due livelli, con
una scala centrale e un passa mano stile coloniale, abita una antichissima
donna. Una centenaria in abiti tradizionali. Ci guarda. Le stringiamo la mano. Poi cominciamo a
parlare con lei, grazie alla nostra guida improvvisata. Lei, il ragazzo e la
gente che incontriamo è incredibilmente gentile e ospitale. La vecchia si
ricorda tanto. Dei francesi, per cui lavorava, e pure degli italiani. Ha un
volto di mille anni fa. Io la filmo e lei racconta. Tra questi difficili
passaggi tra italiano, francese e arabo riusciamo a cogliere molto. Poi la
salutiamo e proseguiamo un po’ a zonzo.
Una famiglia esce
fuori da una casa con la porta aperta, come tante altre. I bambini ci vengono
incontro e le madri dietro. Sono curiosi tutti. Ci invitano subito a prendere
un “caua” (caffè). Entriamo dentro una casa molto povera. Pochissimi oggetti e
le mura impregnate di umidità. Quella che fa male a tutta la famiglia, dice la
mamma, e che provoca asma. I bambini tutti raffreddati giocano con noi.
Prendiamo il caffè nell’unica stanza più arredata, con i divani intorno alle
pareti e il tappeto ma senza corrente elettrica. Tentiamo di parlare con loro
che ci parlano in arabo. La comunicazione è fluida.
Salutiamo anche
loro e continuiamo a perlustrare quel territorio. Cerchiamo la casa di una amica
nata in Tunisia e vissuta lì fino alla fine degli anni cinquanta.
Sappiamo che dobbiamo
cercare LE FERME italiane, le fattorie di quel tempo. Abbiamo delle
indicazioni.
Ci addentriamo in
alcuni sentieri.
Ci fermiamo a
parlare con altri contadini, che poco ricordano ma che ci invitano a prendere
un the o un caffè nelle loro case. Dobbiamo proseguire comunque ma li
ringraziamo. Ritorniamo sulla strada principale e ancora una volta rientriamo
dentro la campagna seguendo una strada di fango.
Ai nostri occhi
appare un mondo rurale e povero perlopiù.
Improvvisamente la
strada prende varie direzioni. Una ci colpisce. In alto una fattoria di pastori
e contadini. Le mura di recinzione bianche. Una casa araba. Improvvisamente
correndo un pastore lascia le sue pecore
e viene verso di noi ridendo e accogliendoci. “Marhaban” –ci dice- Benvenuti. Chiediamo
anche a lui informazioni sulle famiglie siciliane. Non sa niente ma chiama suo
fratello, guidandoci verso l’ingresso della fattoria. Arrivano il fratello e il
resto della famiglia, con la quale stabiliamo un’immediata empatia. Lui, Amor,
parla arabo e inglese, poco francese. Sa qualcosa e ci guida verso una zona.
Viene in macchina con noi. Entriamo in zone interne e di fango, dove rischiamo
di restare intrappolati. Non si può continuare e si torna indietro. Dobbiamo
prendere altre vie migliori. Lui ci farà da guida per almeno un paio di ore.
Giungiamo in case e fattorie povere dove ci vengono incontro pastori, nonne,
galline e cani. Sguardi e baci sono la comunicazione. Poi Amor spiega cosa
cerchiamo. Ci dicono di andare in fondo dove si scorge in lontananza un’altra
casa. Sembra che ci abitassero degli italiani. Nel frattempo chiamo al telefono
in Italia la mia amica scrittrice nata e vissuta li, per capire se ci troviamo
nel posto giusto. Mi dice che forse siamo vicini. Non si può comunque
proseguire in macchina. Si va a piedi. Io, Laura e Amor. Arriviamo in un
uliveto. Sembra la Sicilia. In cima, una casa araba e un ‘altra che sembra più
siciliana. Il pastore che ci viene incontro ci fa filmare qualche attimo ma è
preoccupato che il padre non sia d’accordo. Ci consiglia di andar via. Siamo
contenti comunque. Lo salutiamo. Si è fatta sera e dobbiamo tornare. Amor ci
invita ad andare da lui, nella fattoria bianca dove l’avevamo incontrato.
Un’accoglienza
straordinaria: un atteggiamento, modi di fare che disconosciamo o che abbiamo
dimenticato. Prendiamo un caffè. Una casa semplice ma molto aperta. Un baglio
interno e le stanze tutt’intorno. Ci togliamo le scarpe e ci sediamo su alcuni
cuscini semplici, adagiati a terra.
Ci sono ragazzini e
bimbi. Giochiamo con loro. Gli mostro i filmati registrati. Poi uno di loro esce
e subito dopo rientra lanciando verso di noi un tacchino bellissimo, che
impaurito gironzola nella stanza. Ci dicono: restate a cena, lo ammazziamo per
voi. Siamo colpiti e affatto abituati. Ridiamo e tutti ridono. Ma non possiamo
accettare. Dobbiamo comunque rientrare a Tunis per altri incontri già fissati. Andiamo
via con la promessa di tornare da lì a pochi giorni. Riprendiamo il viaggio.
11-02-2012
Viaggio verso la
regione di Grombalia, a sud-est di Tunis.
Cerchiamo anche in
questo viaggio dei villaggi segnati da alcune mappe, dove hanno vissuto
famiglie siciliane, contadini che si occupavano di vigne e poi diventati anche
produttori di vino.
Dopo essere entrati
a Grombalia e aver chiesto informazioni, ci dirigiamo verso alcuni villaggi in
cui sappiamo di trovare segni di quella migrazione.
Dopo aver girato e
rigirato per rotonde, avanti e indietro, e dopo aver chiesto ulteriori
informazioni di una memoria che sembra molto evanescente, riusciamo a trovare
la via. Entriamo in un villaggio rurale e antico. Subito all’ingresso notiamo
delle case fatiscenti ai lati della strada che sembrano quelle che conosciamo
dalle fotografie storiche che abbiamo con noi. Sono quelle. La conferma arriva
da Mohammed, il padrone del caffè vecchio e povero, che sbuca fuori dopo la
nostra sosta al centro del paesino.
È simpatico,
curioso della nostra ricerca e sembra sapere molte cose. Ci guida nel
piccolissimo villaggio. Dietro il suo caffè infatti si trova la vecchia cava
per il vino, di una famiglia italiana che lo produceva e la chiesa cristiana
diroccata, costruita dai francesi, come tante in tanti altri villaggi. Una
bella architettura rurale. Di fronte ad essa
la vecchia scuola francese, ancora funzionante. Mohammed bussa alla porta e ci
apre il direttore in ciabatte. Dopo un secondo siamo già dentro. La famiglia ci
accoglie. Sono loro il corpo scolastico. Ci sono due classi: una più antica con
banchi che sembrano volti rugosi, risalenti almeno agli anni '50 e le vecchie
lavagne verdi. Poi l’altra, quella nuova, con i computer di ultima generazione.
Arriva il caffè
aromatizzato alla zagara e i biscotti. Sono gentili. Arriva pure il custode,
che scherzosamente dicono essere il vero capo.
Niente di nuovo per noi siciliani.
Ripartiamo salutando
tutti. Ho filmato anche lì.
Riprendiamo una
strada principale. Lungo queste vie si scorgono palazzine coloniali francesi di
rara bellezza, simbolo anche di potere locale, immaginiamo. Oggi sono abitate
da contadini che sembrano sconoscere quella storia e comunque non subire il
fascino che subiamo noi. Accanto la piccola fattoria con pecore e galline e
qualche mucca. Questi contadini sono sempre gentilissimi e continuano invitarci
a prendere qualcosa da bere.
Altre strade e
villaggi portano segni di questi passaggi siciliani, oltre che francesi
naturalmente.
Ne scoviamo altre.
12-02-2012
Dal ritorno da
Shousha Camp, il nostro punto fisso è la casa Di Fausto Giudice a Tunisi. Un
intellettuale eclettico, un giornalista, membro di una rete internazionale di
traduttori e che sta creando una casa editrice a Tunisi. Viviamo a casa sua.
Sembra abbia avuto mille vite. Laura lo aveva conosciuto in uno dei suoi
recenti viaggi in Tunisia. La sua storia, quella della sua famiglia è una
storia di emigrazione. I suoi nonni arrivarono dalla Sicilia in Tunisia in
barcone.
Con lui registriamo
una lunga intervista nel suo soggiorno e che monteremo presto in un trailer,
che farà da apri pista al progetto-documentario.
L’incontro con
Fausto apre a tante visioni sull’immigrazione e sulla vita.
13-02-2012
Con Fausto Giudice
, la mattina successiva, facciamo un tour nel centro di Tunisi, addentrandoci
nel mercato di “Bab el Kadrha”. Poi in auto verso LA Goulette, il porto di
Tunisi, simbolo dell’immigrazione siciliana vicino la capitale, oggi molto
trasformata da un ammodernamento voluto da Ben Ali. Naturalmente anche qui,
nella parte vecchia sono ancora visibili segni della comunità siciliana. Quella
che fu un tempo “La Pétite Sicile”.
Gironzolando nella
parte più vecchia, un anziano ci viene incontro con un grosso mazzo di foto:
quelle de La Goulette antica, abitata e fondata dai siciliani. Qualcosa sa, ma
giusto per venderci le foto. Alcune le compriamo. Tutto costa molto poco in
questo Paese. Un caffè non supera in media i 30 centesimi.
NEL POMERIGGIO: giorni prima avevamo fissato un
appuntamento con due anziani abitanti di un villaggio rurale italiano, oggi
soltanto arabo. Dopo l’espropriazione delle terre nel 1962, Giovanni e Berta vivono
a Ben Arous, un comune a pochi chilometri da Tunisi. Arriviamo. Loro ci
aspettano. La casa da fuori è diversa dalle altre: ha il tetto spiovente e le
tegole. Cosi si distinguevano le case italiane da quelle tunisine.
Entriamo in casa.
Entriamo in un’altra epoca. Almeno negli anni ‘50. Quando anche da noi si
esauriva un mondo per lasciare il passo ad uno più moderno. Anche all’interno,
per quanto alcuni influssi arabi siano presenti, la casa è come quella delle nostre nonne. C’è un giardino interno.
Loro hanno ricreato in miniatura ciò che avevano in passato: la terra. Oggi è
un orto di pochi metri quadri, un bel po’ di galline, tante cose affastellate in
mezzo.
Sono stati
espropriati e non hanno rinunciato a quel mondo, che è loro. Sono nati in
Tunisia.
Italiani di
Tunisia. Una terra di mezzo.
Tutto ciò emerge
dai racconti che filmiamo.
La sera siamo di
nuovo a La Goulette a cena con Fausto Giudice e Hamadi, un giornalista che ha
lavorato in passato per Liberazione. Ceniamo a LA SPIGOLA, ristorante
siculo-tunisino.
14-02-2012
La mattina ritorniamo
nei luoghi di Amor, il contadino che ci aveva aiutato nella ricerca delle
fattorie italiane.
Tornare casa sua è,
per me e Laura, qualcosa di speciale, davvero difficile da raccontare. Un
pranzo semplice a base di “SHAWARMA”, olive, uova di galline appena raccolte.
L’impasto dello Shawarma lo prepara sul
momento una delle donne della famiglia, che coinvolge Laura nella preparazione.
Io giro con uno dei bambini per la casa, col baglio al centro, le stanze, le
stalle, i pollai. Ci capiamo appena ma stiamo bene. Siamo felici tutti.
Non continuo nella
descrizione. Lascio all’immaginazione. Certe cose vanno oltre la narrazione e
appartengono all’intimità.
Il paesaggio intorno
è a perdita d’occhio. Quella dimensione non ha tempo.
15-02-2012
Ancora nelle zone
del contadino Amor.
Da quelle parti cerchiamo
ancora la “nostra” casa. La cerchiamo da giorni in verità. Per me è un po’ il
simbolo del viaggio e ne sottolinea il senso.
Oggi il cielo è
leggermente più aperto. C’è stato molto freddo e il cielo è stato sempre grigio
o molto nuvoloso. Con poche aperture di sole. Quelle giornate che ti fottono le
riprese, perché se sei al meglio dell’inquadratura e hai stabilito i parametri
di’esposizione della luce della videocamera, una nuvola nera di pioggia che
copre il sole, ti costringe in pochi secondi a cambiare le tue scelte,
rischiando a volte di rovinare il risultato.
Ma oggi si deve
trovare quella vecchia casa di campagna. Seguiamo alcune indicazioni precise,
dai nomi affascinanti. Entriamo in una zona chiamata “Le Barrage”, la diga.
Sappiamo che seguendo questa strada potremmo trovare qualcosa. Inshallah,
dicono da queste parti. Lo diciamo ormai anche noi. Funziona!
La strada taglia un
paesaggio straordinario. Con una montagna blu, meravigliosa. E ulivi e fico
d’india e agavi.
Zone poco abitate.
Di tanto in tanto contadini e greggi di pecore e montoni. Ci si saluta tutti.
Noi continuiamo la
ricerca testardamente. La strada è buona, ma poi diventa fangosa. Siamo sempre
più interni e distanti dall’asfalto.
Altri paesaggi si
aprono davanti a noi. Poi, come in un film, un fuoristrada e due tizi. Ci fermiamo.
Da finestrino a finestrino. Cerchiamo la casa della famiglia italiana, domandiamo.
Sono due case vicine. Loro dicono che siamo arrivati. Eravamo certi “Ancora un
più avanti sulla destra” Shukran, Einshek barsha”.
Facciamo altra
strada ma di sentieri sempre più stretti sulla destra ne incontriamo diversi.
Sembra che non si arrivi mai. C’è suspence, proprio come in un film.
Poi tutto di un
colpo eccola la casa diroccata col tetto a spiovente e le tegole rosse. Quello
è il simbolo di una famiglia che ha vissuto e faticato per anni. Noi ci siamo
arrivati. E ci rimanda a molte cose lette. Scendiamo dalla macchina. Per
raggiungerla si va a piedi tra il fango. Non stiamo molto tempo. Si è fatta
sera per cercarla. Ore di ore. Ma siamo arrivati.
Ora si inizia
davvero.
Filmo. E sono
contento.
Questo viaggio
adesso è soltanto l’inizio di una strada nuova che vogliamo percorrere. Ed ha
mille volti.
Enrico Montalbano
15 Febbraio 2012