16 febbraio 2012

DIARIO numero due: viaggio nella memoria migrante siciliana


 
DIARIO numero due: viaggio nella memoria migrante siciliana 

Ricerca e percorsi per un documentario.

Dopo essere rientrati da SHOUSHA CAMP a Tunisi a notte fonda o se preferite nelle prime ore del mattino del 9 febbraio, e dopo esserci concessi una giornata di rilassamento e comprensione minima della città di Tunis, decidiamo che dall’indomani avremmo cominciato l’altro dei due viaggi cui accennavo nel precedente diario: sulle tracce di vite vissute da alcune famiglie siciliane.


09-02-2012
Partiamo per alcuni villaggi. Li hanno vissuto e lavorato decine di famiglie,  partite all’inizio del secolo 1900. Perlopiù siciliani che avevano lavorato per conto di padroni francesi e poi successivamente, con grande fatica e sudore, per conto proprio. Nei primi anni ‘60 del novecento costretti a restituire le terre al governo tunisino, dopo la proclamazione dell’indipendenza.
Malgrado molto sia stato cancellato  di quella storia qualcosa scorgiamo lungo la via. Bisogna comunque farci caso o seguire gli appunti delle letture.
Entriamo in uno di questi. È un villaggio. Come tanti che incontri nelle strade secondarie e nelle vie lunghe che tagliano la Tunisia, una volta abbandonata l’autostrada.
Un villaggio povero.  Tipico di botteghe minuscole, antiche e vecchie, piene di odori speziati.
Entriamo in una zona dove hanno costruito case più recenti in mezzo la campagna di fango e resti di spazzatura disseminata dovunque. Entriamo li dopo aver chiesto informazioni sulla comunità siciliana ad una vecchia contadina ai bordi della strada che taglia in due il villaggio e che taglia in due altri posti più avanti. Sembra che nessuno si ricordi di questa presenza. Ma la contadina ci indica una strada che porta ad alcune vecchie abitazioni.
Seguiamo qualche metro più avanti e chiediamo ad altri. Finalmente un ragazzo sa qualcosa e ci guida fino ad una casa. Una di quelle che cercavamo. L’architettura colonica. Sembra essere stata di qualcuno che stava economicamente bene. Tutto intorno altre case nel fango e asini, galline e pecore.
Il ragazzo parla arabo. Pochissimo francese. Laura conosce un po’ di arabo e parla con lui, che continua a guidarci intorno. Nella parte bassa della casa a due livelli, con una scala centrale e un passa mano stile coloniale, abita una antichissima donna. Una centenaria in abiti tradizionali. Ci guarda.  Le stringiamo la mano. Poi cominciamo a parlare con lei, grazie alla nostra guida improvvisata. Lei, il ragazzo e la gente che incontriamo è incredibilmente gentile e ospitale. La vecchia si ricorda tanto. Dei francesi, per cui lavorava, e pure degli italiani. Ha un volto di mille anni fa. Io la filmo e lei racconta. Tra questi difficili passaggi tra italiano, francese e arabo riusciamo a cogliere molto. Poi la salutiamo e proseguiamo un po’ a zonzo.
Una famiglia esce fuori da una casa con la porta aperta, come tante altre. I bambini ci vengono incontro e le madri dietro. Sono curiosi tutti. Ci invitano subito a prendere un “caua” (caffè). Entriamo dentro una casa molto povera. Pochissimi oggetti e le mura impregnate di umidità. Quella che fa male a tutta la famiglia, dice la mamma, e che provoca asma. I bambini tutti raffreddati giocano con noi. Prendiamo il caffè nell’unica stanza più arredata, con i divani intorno alle pareti e il tappeto ma senza corrente elettrica. Tentiamo di parlare con loro che ci parlano in arabo. La comunicazione è fluida.
Salutiamo anche loro e continuiamo a perlustrare quel territorio. Cerchiamo la casa di una amica nata in Tunisia e vissuta lì fino alla fine degli anni cinquanta.
Sappiamo che dobbiamo cercare LE FERME italiane, le fattorie di quel tempo. Abbiamo delle indicazioni.
Ci addentriamo in alcuni sentieri.
Ci fermiamo a parlare con altri contadini, che poco ricordano ma che ci invitano a prendere un the o un caffè nelle loro case. Dobbiamo proseguire comunque ma li ringraziamo. Ritorniamo sulla strada principale e ancora una volta rientriamo dentro la campagna seguendo una strada di fango.
Ai nostri occhi appare un mondo rurale e povero perlopiù.
Improvvisamente la strada prende varie direzioni. Una ci colpisce. In alto una fattoria di pastori e contadini. Le mura di recinzione bianche. Una casa araba. Improvvisamente correndo un pastore  lascia le sue pecore e viene verso di noi ridendo e accogliendoci.  “Marhaban” –ci dice- Benvenuti. Chiediamo anche a lui informazioni sulle famiglie siciliane. Non sa niente ma chiama suo fratello, guidandoci verso l’ingresso della fattoria. Arrivano il fratello e il resto della famiglia, con la quale stabiliamo un’immediata empatia. Lui, Amor, parla arabo e inglese, poco francese. Sa qualcosa e ci guida verso una zona. Viene in macchina con noi. Entriamo in zone interne e di fango, dove rischiamo di restare intrappolati. Non si può continuare e si torna indietro. Dobbiamo prendere altre vie migliori. Lui ci farà da guida per almeno un paio di ore. Giungiamo in case e fattorie povere dove ci vengono incontro pastori, nonne, galline e cani. Sguardi e baci sono la comunicazione. Poi Amor spiega cosa cerchiamo. Ci dicono di andare in fondo dove si scorge in lontananza un’altra casa. Sembra che ci abitassero degli italiani. Nel frattempo chiamo al telefono in Italia la mia amica scrittrice nata e vissuta li, per capire se ci troviamo nel posto giusto. Mi dice che forse siamo vicini. Non si può comunque proseguire in macchina. Si va a piedi. Io, Laura e Amor. Arriviamo in un uliveto. Sembra la Sicilia. In cima, una casa araba e un ‘altra che sembra più siciliana. Il pastore che ci viene incontro ci fa filmare qualche attimo ma è preoccupato che il padre non sia d’accordo. Ci consiglia di andar via. Siamo contenti comunque. Lo salutiamo. Si è fatta sera e dobbiamo tornare. Amor ci invita ad andare da lui, nella fattoria bianca dove l’avevamo incontrato.
Un’accoglienza straordinaria: un atteggiamento, modi di fare che disconosciamo o che abbiamo dimenticato. Prendiamo un caffè. Una casa semplice ma molto aperta. Un baglio interno e le stanze tutt’intorno. Ci togliamo le scarpe e ci sediamo su alcuni cuscini semplici, adagiati a terra.
Ci sono ragazzini e bimbi. Giochiamo con loro. Gli mostro i filmati registrati. Poi uno di loro esce e subito dopo rientra lanciando verso di noi un tacchino bellissimo, che impaurito gironzola nella stanza. Ci dicono: restate a cena, lo ammazziamo per voi. Siamo colpiti e affatto abituati. Ridiamo e tutti ridono. Ma non possiamo accettare. Dobbiamo comunque rientrare a Tunis per altri incontri già fissati. Andiamo via con la promessa di tornare da lì a pochi giorni. Riprendiamo il viaggio.

11-02-2012
Viaggio verso la regione di Grombalia, a sud-est di Tunis.
Cerchiamo anche in questo viaggio dei villaggi segnati da alcune mappe, dove hanno vissuto famiglie siciliane, contadini che si occupavano di vigne e poi diventati anche produttori di vino.
Dopo essere entrati a Grombalia e aver chiesto informazioni, ci dirigiamo verso alcuni villaggi in cui sappiamo di trovare segni di quella migrazione.
Dopo aver girato e rigirato per rotonde, avanti e indietro, e dopo aver chiesto ulteriori informazioni di una memoria che sembra molto evanescente, riusciamo a trovare la via. Entriamo in un villaggio rurale e antico. Subito all’ingresso notiamo delle case fatiscenti ai lati della strada che sembrano quelle che conosciamo dalle fotografie storiche che abbiamo con noi. Sono quelle. La conferma arriva da Mohammed, il padrone del caffè vecchio e povero, che sbuca fuori dopo la nostra sosta al centro del paesino.
È simpatico, curioso della nostra ricerca e sembra sapere molte cose. Ci guida nel piccolissimo villaggio. Dietro il suo caffè infatti si trova la vecchia cava per il vino, di una famiglia italiana che lo produceva e la chiesa cristiana diroccata, costruita dai francesi, come tante in tanti altri villaggi. Una bella architettura rurale.  Di fronte ad essa la vecchia scuola francese, ancora funzionante. Mohammed bussa alla porta e ci apre il direttore in ciabatte. Dopo un secondo siamo già dentro. La famiglia ci accoglie. Sono loro il corpo scolastico. Ci sono due classi: una più antica con banchi che sembrano volti rugosi, risalenti almeno agli anni '50 e le vecchie lavagne verdi. Poi l’altra, quella nuova, con i computer di ultima generazione.
Arriva il caffè aromatizzato alla zagara e i biscotti. Sono gentili. Arriva pure il custode, che scherzosamente dicono essere il vero capo.  Niente di nuovo per noi siciliani.
Ripartiamo salutando tutti. Ho filmato anche lì.
Riprendiamo una strada principale. Lungo queste vie si scorgono palazzine coloniali francesi di rara bellezza, simbolo anche di potere locale, immaginiamo. Oggi sono abitate da contadini che sembrano sconoscere quella storia e comunque non subire il fascino che subiamo noi. Accanto la piccola fattoria con pecore e galline e qualche mucca. Questi contadini sono sempre gentilissimi e continuano invitarci a prendere qualcosa da bere.
Altre strade e villaggi portano segni di questi passaggi siciliani, oltre che francesi naturalmente.
Ne scoviamo altre.

12-02-2012
Dal ritorno da Shousha Camp, il nostro punto fisso è la casa Di Fausto Giudice a Tunisi. Un intellettuale eclettico, un giornalista, membro di una rete internazionale di traduttori e che sta creando una casa editrice a Tunisi. Viviamo a casa sua. Sembra abbia avuto mille vite. Laura lo aveva conosciuto in uno dei suoi recenti viaggi in Tunisia. La sua storia, quella della sua famiglia è una storia di emigrazione. I suoi nonni arrivarono dalla Sicilia in Tunisia in barcone.
Con lui registriamo una lunga intervista nel suo soggiorno e che monteremo presto in un trailer, che farà da apri pista al progetto-documentario.
L’incontro con Fausto apre a tante visioni sull’immigrazione e sulla vita.

13-02-2012
Con Fausto Giudice , la mattina successiva, facciamo un tour nel centro di Tunisi, addentrandoci nel mercato di “Bab el Kadrha”. Poi in auto verso LA Goulette, il porto di Tunisi, simbolo dell’immigrazione siciliana vicino la capitale, oggi molto trasformata da un ammodernamento voluto da Ben Ali. Naturalmente anche qui, nella parte vecchia sono ancora visibili segni della comunità siciliana. Quella che fu un tempo “La Pétite Sicile”.
Gironzolando nella parte più vecchia, un anziano ci viene incontro con un grosso mazzo di foto: quelle de La Goulette antica, abitata e fondata dai siciliani. Qualcosa sa, ma giusto per venderci le foto. Alcune le compriamo. Tutto costa molto poco in questo Paese. Un caffè non supera in media i 30 centesimi.
NEL  POMERIGGIO: giorni prima avevamo fissato un appuntamento con due anziani abitanti di un villaggio rurale italiano, oggi soltanto arabo. Dopo l’espropriazione delle terre nel 1962, Giovanni e Berta vivono a Ben Arous, un comune a pochi chilometri da Tunisi. Arriviamo. Loro ci aspettano. La casa da fuori è diversa dalle altre: ha il tetto spiovente e le tegole. Cosi si distinguevano le case italiane da quelle tunisine.
Entriamo in casa. Entriamo in un’altra epoca. Almeno negli anni ‘50. Quando anche da noi si esauriva un mondo per lasciare il passo ad uno più moderno. Anche all’interno, per quanto alcuni influssi arabi siano presenti, la casa è come quella  delle nostre nonne. C’è un giardino interno. Loro hanno ricreato in miniatura ciò che avevano in passato: la terra. Oggi è un orto di pochi metri quadri, un bel po’ di galline, tante cose affastellate in mezzo.
Sono stati espropriati e non hanno rinunciato a quel mondo, che è loro. Sono nati in Tunisia.
Italiani di Tunisia. Una terra di mezzo.
Tutto ciò emerge dai racconti che filmiamo.
La sera siamo di nuovo a La Goulette a cena con Fausto Giudice e Hamadi, un giornalista che ha lavorato in passato per Liberazione. Ceniamo a LA SPIGOLA, ristorante siculo-tunisino.

14-02-2012
La mattina ritorniamo nei luoghi di Amor, il contadino che ci aveva aiutato nella ricerca delle fattorie italiane.
Tornare casa sua è, per me e Laura, qualcosa di speciale, davvero difficile da raccontare. Un pranzo semplice a base di “SHAWARMA”, olive, uova di galline appena raccolte. L’impasto  dello Shawarma lo prepara sul momento una delle donne della famiglia, che coinvolge Laura nella preparazione. Io giro con uno dei bambini per la casa, col baglio al centro, le stanze, le stalle, i pollai. Ci capiamo appena ma stiamo bene. Siamo felici tutti.
Non continuo nella descrizione. Lascio all’immaginazione. Certe cose vanno oltre la narrazione e appartengono all’intimità.
Il paesaggio intorno è a perdita d’occhio. Quella dimensione non ha tempo.

15-02-2012
Ancora nelle zone del contadino Amor.
Da quelle parti cerchiamo ancora la “nostra” casa. La cerchiamo da giorni in verità. Per me è un po’ il simbolo del viaggio e ne sottolinea il senso.
Oggi il cielo è leggermente più aperto. C’è stato molto freddo e il cielo è stato sempre grigio o molto nuvoloso. Con poche aperture di sole. Quelle giornate che ti fottono le riprese, perché se sei al meglio dell’inquadratura e hai stabilito i parametri di’esposizione della luce della videocamera, una nuvola nera di pioggia che copre il sole, ti costringe in pochi secondi a cambiare le tue scelte, rischiando a volte di rovinare il risultato.
Ma oggi si deve trovare quella vecchia casa di campagna. Seguiamo alcune indicazioni precise, dai nomi affascinanti. Entriamo in una zona chiamata “Le Barrage”, la diga. Sappiamo che seguendo questa strada potremmo trovare qualcosa. Inshallah, dicono da queste parti. Lo diciamo ormai anche noi. Funziona!
La strada taglia un paesaggio straordinario. Con una montagna blu, meravigliosa. E ulivi e fico d’india e agavi.
Zone poco abitate. Di tanto in tanto contadini e greggi di pecore e montoni. Ci si saluta tutti.
Noi continuiamo la ricerca testardamente. La strada è buona, ma poi diventa fangosa. Siamo sempre più interni e distanti dall’asfalto.
Altri paesaggi si aprono davanti a noi. Poi, come in un film, un fuoristrada e due tizi. Ci fermiamo. Da finestrino a finestrino. Cerchiamo la casa della famiglia italiana, domandiamo. Sono due case vicine. Loro dicono che siamo arrivati. Eravamo certi “Ancora un più avanti sulla destra” Shukran, Einshek barsha”.
Facciamo altra strada ma di sentieri sempre più stretti sulla destra ne incontriamo diversi. Sembra che non si arrivi mai. C’è suspence, proprio come in un film.
Poi tutto di un colpo eccola la casa diroccata col tetto a spiovente e le tegole rosse. Quello è il simbolo di una famiglia che ha vissuto e faticato per anni. Noi ci siamo arrivati. E ci rimanda a molte cose lette. Scendiamo dalla macchina. Per raggiungerla si va a piedi tra il fango. Non stiamo molto tempo. Si è fatta sera per cercarla. Ore di ore. Ma siamo arrivati.
Ora si inizia davvero.
Filmo. E sono contento.
Questo viaggio adesso è soltanto l’inizio di una strada nuova che vogliamo percorrere. Ed ha mille volti.

Enrico Montalbano
15 Febbraio 2012


12 febbraio 2012

DIARIO TUNISIA - numero uno: SHOUSHA CAMP


Tunisia - diario di un viaggio, febbraio 2012

Io e Laura Verduci partiamo per la Tunisia, dopo circa un anno di lavoro legato alle tematiche storiche delle migrazioni da, e verso la Tunisia.

VISIONI:
E’ possibile arrivare in un posto e non essere trascinati immediatamente nella narrazione.
 Si. Qualsiasi cosa e dovunque si narra come fa la corrente del fiume che non si zittisce mai.
Ma ci sono posti come la Tunisia o la Sicilia che travolgono lasciandoti senza fiato.

Il viaggio ha due direzioni e non solo fisicamente: i viaggi sono due e si intrecciano.

L’arrivo lo salto in questo diario. Anche se gli arrivi sono le porte di ingresso. Dico soltanto che ad aspettarci alla Goulette c’è Marta Bellingreri, che conduce diverse ricerche sulle tematiche delle migrazioni e vive a Tunisi per adesso.. Siamo ospiti da Fausto Giudice. Un traduttore, un giornalista, un eclettico. Parla 10 lingue forse, comunque tante. È figlio di italiani nati a Tunisi. Lui sarà una delle voci narranti per la ricerca che sto conducendo sulla storia degli immigrati siciliani in Tunisia, finalizzata alla realizzazione di un documentario, che intreccia queste memorie ad un mio personale percorso.

Domenica Tunisi. Il lunedì partiamo per SHOUSHA CAMP: un campo profughi messo su dalle Nazioni Unite in accordo con il governo Tunisino, per accogliere i fuoriusciti civili, la maggior parte neri africani, dalla Libia durante e dopo il conflitto.

Entriamo a Shousha il 7 febbraio 2012. In auto, quella di Laura Verduci, che abbiamo imbarcato da Palermo.

SHOUSHA CAMP si trova praticamente nel deserto a settecento kilometri da Tunisi, nel sud, ai confini con la Libia.
Da Tunisi il paesaggio cambia gradualmente fino a diventare africano.
Attraversiamo decine e decine di posti tra città  e villaggi, specialmente quelli che, una volta abbandonata la autostrada, ti trovi a tagliare su una route che arriva più o meno dritta fino a Ben Garden, la città´di frontiera, l’ultima prima del confine libico e più vicina al campo profughi. Dormiamo a Ben Garden.
Durante il viaggio ci fermeremo per una sosta, ospiti a pranzo da una famiglia che Marta conosce. Una ospitalità´grande. Couscous, caffè arabo, Kenoun per riscaldarsi le mani.
Durante il viaggio lungo la strada chiunque vende tutto. Davvero tutto. Chi benzina, chi frutta o bevande o pane. Immaginate.
Ma torniamo a Ben Garden. Arriviamo di notte. Ad aspettarci due ragazzi di ONG che erano entrati già al campo e che ci informano su diversi aspetti. Per quanto già forte come impatto l’arrivo notturno, sarà incredibile come, dopo poche ore di sonno, ci apparirà il paese l’indomani mattina.
Saranno le solite visioni occidentali forse che ti assalgono: il modo di vita, i vestiti tradizionali portati quotidianamente, le botteghe, i colori, gli odori. Ma la cosa che emerge più forte è sentire che questo villaggio grande è diverso da altri. Siamo in Libia, anche se il territorio è interno ai confini tunisini. Ma è alla Libia che pensi quando ti rendi conto di essere in una dimensione più sconosciuta e chiusa. E’ un pullulare di affari. Gente sventola mazzi di soldi tunisini o libici per il cambio. Lungo il ciglio della strada, tra un brace con carne di montone e un altro negozio di fortuna che ti vende benzina, elettrodomestici e ancora cambio di soldi. Sbucano fuori da ogni parte. Gente dalla faccia scolpita e scura. Brutti ceffi dicono da altre parti della Tunisia. Ci chiedono: “ siete stati a BEN GARDEN?” – ridono.
A Ben Garden non si vedono  turisti occidentali.
Anche se il paesaggio è cosi bello e affascinante. Striature di sabbia sull’asfalto.
Sabbia. Intorno e andando poi verso Shousha Camp, quando ti lasci alle spalle gli ultimi mercanti sulla strada, vedi una distesa gialla e poi bianca all’orizzonte. Il deserto comincia lì. Te lo annunciano immediatamente i dromedari sulla via che incontri. Quelli li vediamo entrare e uscire dal Campo Profughi. I cani gli abbaiano. E i dromedari se ne fottono.
Infatti la mattina dopo l’arrivo e dopo aver dormito in un albergo molto arabo, partiamo, dopo poche ore di sonno alle spalle, per il Campo.
Dopo aver attraversato tutto quello che vi dicevo, alcuni kilometri prima di Shousha veniamo fermati a due, tre ceck point dell’esercito Tunisino. Ci fermeranno soltanto quelle volte. Poi saremo per sempre una delegazione di giornalisti italiani, e non ci fermeranno più. Un saluto guardandoci negli occhi, e via…si passa, si spassa  e si ripassa…Ben Garden  verso  Shousha e viceversa.

Il Campo si presenta come una immensa tendopoli in mezzo alla sabbia più sabbia. E’ cosi grande che si vede già kilometri prima. Impressionante.
Decidiamo di entrare,  abbiamo  una camera e un microfono.
Ci dicono di parlare col colonnello, responsabile del campo. L’esercito comanda. La polizia, dopo la caduta di Ben Ali, non è tanto credibile. I militari sono dovunque.
Entriamo nella loro tenda. Il colonnello è diretto e ci dice: non entrerete mai senza un autorizzazione ministeriale.
In un attimo siamo già fuori. Intanto è impossibile fare riprese. Una tempesta di sabbia ci accoglie e ci avvolge sin dal mattino.
Siamo attenti, ma mai davvero tesi. Tutto viene affrontato con calma e decisione. Abbiamo contatti con persone dentro il campo. Lungo la recinzione esterna dello stesso, tunisini di Ben Garden e migranti, ormai abitanti di lungo corso, hanno organizzato un mercato di tende in cui si vende di tutto ciò che può servire. Dei tunisini, ci diranno di lì a poco, che sono anche spie dell’esercito. Guardano e riferiscono. E’ difficile comunque fare riprese, non solo per la tempesta di sabbia. Capiamo di essere monitorati e controllati costantemente.
Intanto arrivano fuori alcuni africani che sapevano del nostro arrivo. Questi ci raccontano molto. Filmiamo dentro una tenda  tra le tende del mercatino. Una vuota, abbandonata, dell’UNHCR.
Shousha infatti è un campo UNHCR. Quest’ultimo si occupa delle richieste di asilo e resettement, cioè il reinserimento delle persone in altri stati, anche europei. Tutto con lunghe attese.
Sono presenti altre organizzazioni: OIM, CDR, UNICEF, ecc..
Tra un andare e venire dal campo, in attesa di una risposta relativa all’accesso che non arriverà in giornata si è fatta sera. Siamo ancora lì fuori. L’esercito ci guarda ma non ci molesta.
Decidiamo di partire per Zarzis, dove abbiamo un incontro e una cena. 100 kilometri. Ma al campo bisogna tornare a tutti i costi la mattina dopo.
 La sera siamo a Zarzis, ceniamo e dormiamo di fronte il mare, quasi sulla spiaggia. L’indomani, entriamo a Shousha. Entriamo perché ci muoviamo all’interno, diciamo così, di sistemi di relazione e del nostro savoir faire
A guidarci dentro il campo, su una jeep, un responsabile dell’ UNHCR.
Una emozione di nuovo forte.
Io filmo. Quando filmo sono strumento.
Devo prendere quel che posso.
Ci danno un tempo molto limitato.
Riusciamo ad entrare pure in qualche tenda, tra mamme e bambini simpaticissimi, con i quali troviamo, in quello spazio ridottissimo e narrazioni drammatiche, il tempo di giocare e guardarci.
Passiamo attraverso la tendopoli velocemente. Si ha la dimensione di un villaggio in cui la gente prova ad organizzare la propria quotidianità, originale e spontanea rispetto quella guidata dai veri percorsi che il sistema ha confezionato per loro: la scuola, la mensa, i vestiti, ecc..
Vorremmo fare di più,
Avere molto più tempo.
Non entreremo nelle tende, ma percepiamo tanto. Comunque una tenda è un luogo in cui riversi tutto quel che possiedi in quel momento.  Le Tende si somigliano. In Sicilia ne abbiamo viste tante e con più facilità.
Immaginate. Qualcuno di noi tre giura di avere visto tra le tende e la rassegnata disperazione, una antenna satellitare e chissà cos’altro ancora. Il deserto si sa ti fa vedere cose..
Tante le persone di diverse nazionalità ed etnie. Una babele di linguaggi.

Siamo stati lì.
A Shousha Camp.
 In quel tempo abbiamo provato a guardare negli occhi chi in quella “città” forse ha paura di restarci troppo tempo.

LASCIAMO SHOUSHA. CI PENSEREMO ANCORA A LUNGO.

INIZIAMO LA RISALITA VERSO TUNISI. LASCIAMO MARTA A MEDNINE. NOI PROSEGUIAMO. NOVE ORE DI VIAGGIO CI ASPETTANO. ARRIVEREMO A NOTTE FONDA.

arrivederci al prossimo diario...
Enrico Montalbano